Nonno Domenico
Lietta non aveva conosciuto il nonno materno, ogni tanto chiedeva di lui alla mamma.
La mamma non amava raccontare storie, ma amava l’eleganza, curava l’aspetto esteriore ed amava portare qualche gioiello di raffinata fattura: come il doppio cammeo personalizzato che amava sfoggiare quando andava in visita dai parenti. Quando Lietta le chiedeva del nonno, lei rispondeva con un gesto: apriva il cammeo in cui era incastonato il volto del nonno e poi invariabilmente aggiungeva: «Era un gentiluomo d’altri tempi: era nato povero in canna ma poi era diventato un proprietario terriero molto, molto ricco. Era “un uomo di rispetto”. È morto a causa di una banale polmonite, nel pieno della maturità». Ed era tutto.
– Come se era possibile diventare ricco dal nulla in una terra poverissima! – rifletteva Lietta tra sè ma non espresse mai a parole i suoi dubbi alla mamma. Per anni le rimase la curiosità insoddisfatta su quel nonno misterioso, come un punto di domanda emergente dalle nebbie della memoria. Perchè la Sicilia non è l’America, nessuno diventa ricco senza pagare pegno a qualcuno o a qualcosa. L’unico modo lecito per salire lo scalino sociale era fare un matrimonio d’interesse… ma il nonno era già sposato prima di diventare ricco! Queste riflessioni Lietta le fece solo molti anni dopo.
Anche la zia Maria, ogni tanto le raccontava delle storie ma non di angeli, lei parlava di luoghi strani e misteriosi in cui c’erano fantasmi, a piedi, ed uomini neri incappucciati, a cavallo: fu da lei che Lietta sentì parlare per la prima volta della Certosa di Bagheria, ma aveva appena 8 anni e non ci capì molto. Soprattutto non capiva perchè la zia aveva nominato la Certosa quando le aveva chiesto del nonno.
Man mano che cresceva, Lietta notava sempre più incongruenze in quello che le raccontavano di nonno Domenico ed alla fine rinunciò; era diventato come un fantasma chiuso nel cammeo: bastava non aprirlo!
Quando poi, a 15 anni, ricevette in dono il prezioso cammeo con la foto del nonno, lo mise in un cassetto e lo dimenticò.
Passarono ancora degli anni, solo durante una lezione di Storia dell’Arte, al terzo anno di Liceo, Lietta realizzò che il sito della Certosa bagherese, quel nome misteriosamente associato al ricordo di nonno Domenico, era stato per molti secoli, il più importante Museo delle Cere in Europa: in buona sostanza, si rese conto con grande meraviglia, che il Museo delle Cere della Certosa era da considerare come antesignano e precursore del Museo inglese delle Cere di M.me Tussaud e del Museo delle Cere Grevin di Parigi!
Statue di cera di monaci certosini nella Certosa di oggi:
Approfondimenti storici sulla Certosa di Bagheria»
I fantasmi della Certosa
Negli anni venti era ancora possibile vedere all’interno alcuni manufatti originali, ma il luogo all’esterno era degradato ed insicuro: Sul far della sera, l’esterno alla Certosa, si trasformava in un luogo di raduno di “fantasmi”: si raccontava che appena calato il buio, figure avvolte in lenzuola bianche svolazzanti, in tutto e per tutto somiglianti ai monaci certosini di cera che si trovavano all’interno del museo, si appostavano dietro il colonnato dorico per impaurire i malcapitati passanti. Chi poteva, evitava di passare da lì, ma per molti quello era un passo obbligato per ritornare a casa o rientrare in paese. E molti obbedivano senza fiatare all’ordine perentorio dei “fantasmi” che con voce roca intimavano loro: «Pentiti e lascia in espiazione dei tuoi peccati un obolo per le anime sante del Purgatorio!» In preda alla paura, aumentata a mille dalla scenografia sinistra del luogo, (cere di uomini morti straordinariamente simili agli originali, all’interno del museo, e fantasmi degli stessi uomini morti, all’esterno), scappavano a gambe levate morti di scanto! Naturalmente abbandonando le bisacce o svuotando le tasche dei pochi spiccioli che avevano guadagnato nel lavoro a giornata. Con il passare del tempo la situazione era diventata insostenibile.
Ed è à questo punto che la storia del nonno di Lietta s’intreccia con la cronaca della Certosa.
A quel tempo in Sicilia come in tutto il Sud le cose stavano così: nasceva e si consolidava la borghesia agraria; la nobiltà andava perdendo potere economico e sociale ma la grossa proprietà terriera era ancora in mano ai nobili che anche se decaduti o decadenti, non per questo erano disposti a cedere ad altri i loro privilegi; il popolo era alla fame; esplodeva il fenomeno dell’emigrazione verso l’America; le campagne erano infestate dal brigantaggio.
I nobili, sempre impegnati ad organizzare le feste nelle loro sontuose ville di campagna cominciarono a dare in affitto parte dei loro feudi: gli affittuari erano chiamati “gabellotti” (in siciliano gabelloti) e provenivano da quella piccola borghesia imprenditoriale agricola che successivamente, approfittando dell’incapacità della classe nobiliare di gestire i propri feudi, se ne appropriò passando dalla condizione di affittuario a quella di proprietario. Molti di loro, facevano i campieri prima di diventare gabellotti. I campieri erano delle figure tipiche della Sicilia dell’XIX secolo, invero erano presenti nelle zone agricole di tutta Italia, ma in forma temporanea, uomini di fiducia del proprietario, del mezzadro o dell’affittuario: perlopiù a cavallo, non necessariamente armati, controllavano, in ronda o da postazioni sopraelevate, le coltivazioni nel periodo prossimo alla raccolta, per prevenire furti, danneggiamenti e incendi dolosi delle messi mature.
Il padrone del feudo, che apparteneva al ceto dei galantuomini o dei nobili, si rifugiava nei castelli o nei palazzi signorili per via delle rivolte popolari nelle campagne e lasciava le guardie campestri (o campieri) a presidiare la proprietà.
Piano piano i campieri, che rispondevano del loro operato direttamente ai gabellotti, la facevano da padroni nelle terre del feudo e tenevano a bada i contadini perchè non alzassero troppo la testa.
I gabellotti a loro volta avevano tutto l’interesse a favorire i capricci e gli sprechi dei loro padroni, per farli indebitare sempre di più, praticamente alienandoli dalla gestione effettiva dei loro beni produttivi. I gabellotti si servivano come manovalanza dei campieri, che essendo loro sottoposti, erano disposti a tutto per far ragionare con le buone o con le cattive chi non intendeva ragioni. Era “in nuce” la nascita dei clan mafiosi. Tra la fine del 1918 e l’estate del 1919, nell’intera Italia meridionale scoppiarono violenti scioperi per via della mancata promessa della riforma agraria.
Ci pensarono i gabbellotti a far finire gli scioperi usando la manovalanza mafiosa del luogo contro i contadini.
Nella Sicilia di allora non si costruiva mai nulla dal nulla, si era lontani anni luce dal mondo anglosassone e persino oggi le cose non sono cambiate di molto: il salto sociale avveniva, ieri come oggi solo attraverso alcuni passaggi ben definiti: con la violenza, con il matrimonio o con l’imbroglio. Vigeva la legge del Far West, ossia la legge del più forte. Per i singoli l’unica via di fuga era emigrare in America o farsi prete. Gli altri o si sottomettevano alle violenze o passavano dalla parte del più forte.
Nonno Domenico aveva tre fratelli: Pasquale, Filippo e Pietro. Erano tutti molto uniti tra loro e si sostenevano a vicenda in ogni circostanza. Erano “uomini di rispetto”, come si chiamavano allora le persone in grado di far rispettare l’ordine precostituito. Inizialmente erano tutti campieri, cioè guardie private delle tenute agricole delle numerose ville settecentesche presenti nel territorio di Bagheria. La svolta arrivò quando la situazione alla Certosa divenne critica e le aggressioni ai viandanti divennero quotidiane: una sera i fratelli si presentarono tutti e quattro a cavallo intabarrati nei loro mantelli neri, nel luogo dove i “fantasmi” dei frati certosini solevano appostarsi e senza proferire verbo cominciarono a sparare in aria con i fucili che avevano opportunamente portato con sè. A quel punto i “fantasmi” se la diedero a gambe levate, si dice lasciando cadere a terra i lenzuoli bianchi per poter correre meglio e da quella sera di loro non si sentì più parlare.
La storia si diffuse rapidamente e poco tempo dopo uno dei fratelli, Pasquale, da campiere, fu promosso a gabellotto nella tenuta del barone Gaetano De Stefano. Nel 1919, in pieno tracollo finanziario, il barone si trovò a firmare il compromesso di parziale vendita del Fondo Sperlinga a Pasquale, che intanto era tato nominato cavaliere, e a Francesca Aiello, cognata di quest’ultimo. Nell’intervallo però anche altri fondi della vastissima proprietà del barone vennero ipotecati a favore degli altri fratelli. Il passaggio definitivo di proprietà avvenne nel 1931.
Fu quando venne a conoscenza dell’intera faccenda che Lietta capì finalmente il significato del termine “uomo di rispetto” riferito a nonno Domenico.
Approfondimenti storici sulla Certosa di Bagheria
Fra le tante Ville settecentesche, La Certosa di Bagheria, ora riaperta dopo anni d’incuria ed abbandono, si distingue per la sua storia particolare, per l’originalità dell’architettura e per la ricercatezza degli affreschi eseguiti dal Velasco: il padiglione neoclassico con pronao a quattro colonne doriche, venne realizzata nel 1797 per volere del principe Ercole Michele Branciforti come dépendance immersa nella pineta di Villa Butera, in cui ospitare, degnamente, gli ospiti illustri del principe. A tale scopo, al piano terra furono realizzati quattro piccoli residences con alcova, salottino e, cosa unica per l’epoca, acqua calda e fredda nel bagno. Sempre al piano terra, un salone delle feste, cucina, lavatoi e alloggi per la servitù. Al piano superiore, il Principe volle una sorta di “Wunderkammer” per il divertimento e lo stupore degli ospiti.Trattavasi di un bizzarro museo del costume con figure in cera di monaci certosini, a grandezza naturale, eseguite dal Ferretti, alle quali dettero anche volto noti personaggi dell’epoca quali Luigi XVI, Ferdinando di Borbone, e Maria Carolina, Orazio Nelson, Ruggero il Normanno, e lo stesso Ercole Michele Branciforti.
Il principe, nella sua “Certosa”, volle ritrarre con statue in cera imbottite di paglia e stoppa e con statue in legno, alcuni celebri personaggi del tempo, vestiti con sai monacali bianchi. All’ingresso dell’edificio un converso con una brocca in mano dava il benvenuto ai visitatori con fare affabile, mentre un altro monaco tirando la cordicella di una campana avvisava i fratelli della visita. Attraversando un piccolo corridoio, si potevano ammirare un cane San Bernardo, un orso ed un pescecane imbalsamati, e si potevano raggiungere le varie celle. Le pareti del corridoio erano adornate con affreschi di grande valore, tra cui vari ritratti come quello dello stesso Branciforti. Giunti nelle celle impreziosite dalla presenza di affreschi del pittore Velasquo vi erano, nella prima stanza a destra, la raffigurazione di un moro intento a servire il pranzo all’ammiraglio inglese Orazio Nelson, in compagnia della sua amante Maria Carolina. Continuando vi era la statua di un vecchietto che puliva il pavimento. Nella seconda e terza cella si ricordava l’amore infelice tra Comingio ed Adelaide, che, secondo la leggenda, pur essendo molto innamorati, non riuscirono ad ottenere la dispensa papale per sposarsi perché parenti prossimi. Nella quarta stanza c’era una cucina in muratura dove un monaco cucinava due uova in un tegamino, mentre sulle pareti erano appesi antichi utensili da cucina, in una stanza adiacente era raffigurato un altro monaco certosino (sempre con il saio bianco) con una pala ed una cesta. In un’altra cella vi era il conte Ruggero il Normanno che leggeva un libro. Proseguendo nel percorso, in una grande sala erano raffigurate le statue in cera di tre illustri personaggi intorno ad un tavolo, essi erano il principe Ercole Michele Branciforti, il re di Francia Luigi XVI, e Ferdinando I di Borbone. Nell’ultima stanza vi era la rappresentazione molto realistica, dell’omicidio del principe Caramanico.
Negli antichi registri dei visitatori della Certosa troviamo le firme di rinomate personalità e di illustri scrittori che hanno celebrato l’importanza storica ed artistica del luogo. La singolarità dell’idea rese la “Certosa” molto conosciuta e meta turistica obbligata.
In buona sostanza, possiamo affermare che il Museo delle Cere della Certosa è da considerare come antesignano e precursore del Museo inglese delle Cere di M.me Tussaud e del Museo delle Cere Grevin di Parigi
Purtroppo, nel novecento, la struttura venne abbandonata all’incuria e al degrado, e usata come stalla e deposito di materiali di risulta. Tutto quanto poteva essere asportato, mattoni compresi, fu trafugato. Oggi, con un attento e costoso intervento di restauro, la Certosa, tornata a nuova vita, ospita il “Museo del Giocattolo e delle Cere Pietro Piraino” dotato di un’aula multimediale, di un laboratorio per la ceroplastica, di un’aula per la didattica, del book shop e della cafeteria. Alcune statue di cera sono state rifatte conformi a quelle originali.